ScrivereSenzaGloria: DIALOGHI di Robert McKee
L’arte di far parlare
Dall’inglese singolare Dialogue, la traduzione italiana diventa (intelligentemente, come molte altre scelte dell’edizione nostrana) Dialoghi.
Segue la didascalia L’arte di far parlare i personaggi nei film, in TV, nei romanzi, a teatro. Certamente omnicomprensiva di tutti i media trattati. Ma che poteva benissimo essere Il dialogo è azione (non parola morta).
I cori degli angeli cantano: Robert McKee è tornato! Il leggendario (mai aggettivo fu più calzante) autore di Story, l’opera omnia, il manuale, macché, la bibbia!, dello sceneggiatore cinematografico (principalmente, ma non solo), si rifà vivo dopo tanti anni. E stavolta torna per tutti (non solo per sceneggiatori).
Com’è questa nuova incarnazione del Messia delle Storie? Per chi ha letto Story è interessante, sì, ma nulla di più, nulla di nuovo. Anzi a volte sa di trito e ritrito, ma per il neofita è senz’altro un viaggio senza precedenti.
Il libro si (s)compone in diciannove capitoli, raggruppati in quattro parti. Vediamole, nell’ordine.
L’arte del dialogo
La premessa è che il dialogo si muove lungo tre differenti percorsi. Verso gli altri (duologo o trialogo), verso se stessi, verso il lettore.

Da qui il dialogo come azione (in quanto attività performativa) si declina in Drammatizzato e in Narrativo per tutti i media (palcoscenico, schermo, pagina… e la radio?).
Se ne analizzano le tre diverse funzioni. Esposizione (fondamentali le illustrazioni delle due principali tecniche: spinta narrativa e esposizione). Caratterizzazione (che contraddice il vero personaggio). Azione (di tutti i tipi).
Quindi si approda alle tre declinazioni dell’espressività. Il contenuto (che si muove fra il detto, il non detto e, ancor più importante, l’indicibile, ovvero il sottotesto che si cela nel testo). La forma (animata dal conflitto: di tutti i tipi e di tutti i generi, si rimanda all’ultima parte). La tecnica (dal linguaggio figurato alla comunicazione non verbale più una combo delle due).
Fermi tutti: il capitolo cinque è fondamentale per qualsiasi dialoghista. Letteralmente spiega come si fanno le battute. L’autore lo spiega grazie all’ausilio di esempi efficaci: abbiamo la frase suspense, la frase ad accumulazione, la frase bilanciata.
Errori e soluzioni
Dopo questa prima infarinatura e avendo appreso che meno si scrive meglio è (economia!), si passano in rassegna i principali errori cui si incappa scrivendo il dialogo.
Ovvero quelli inerenti… La credibilità (riassumo: il dialogo è falso se l’avete già sentito).
Il linguaggio (riassumo: cliché, arma a doppio taglio, e ancora sacrosanta economia).
Il contenuto (entra in gioco la famosa parola, lasciata in originale nel testo, on the noise: quando il personaggio si sfoga e dice tutto, ma proprio tutto quel che ha da dire di profondo, insomma il peccato dei peccati. Nota: McKee parla bene di tutti i suoi amici sceneggiatori e autori, non riporta mai esempi cattivi, ma l’unica prova che bolla come negativo e che riporta testualmente è, in questo capitolo otto, un dialogo de Il Gladiatore).
Gli errori nel disegno (rileggete ad alta voce quello che avete scritto e vi accorgerete da soli se è il caso di rimetterci mano).
Tutto ciò accompagnato da relativi suggerimenti per ovviare ai singli problemi.

Creare il dialogo
Si divide in due parti. La prima dà una serie di preziosi consigli su come creare il dialogo specifico per il vostro personaggio. Infatti solo lui può parlare così, nel suo mondo, e nel nostro, solo lui e nessun altro. Questo lo sa l’autore, e lo sa il lettore. Riprende la vecchia differenza fra talento letterario e talento narrativo già propugnata in Story, e va spedito con lezioni che conosciamo bene (più limitato è il nostro mondo, più la ristrettezza ispira la nostra creatività).
Nella seconda parte prende in esame quattro casi che più diversi non si può, e anche in questo caso da tutti i media (tranne la radio).
Il teatro con Shakespeare (McKee fa, grandiosamente, quello che nessun altro insegnante di scrittura farebbe: invita il lettore a inventare neologismi se nel vocabolario non esistono ancora termini adatti per esprimere il tuo concetto.
Il romanzo con Leonard (di Out of Sight hanno tratto anche il bel film con Clooney e la Lopez all’apice della sua carriera, anche se nel libro i personaggi inseguono di più il modello di Robert Redford e Faye Dunaway).
La serie tv con 30 Rock (testo più analisi sarebbero da rileggere ogni sera a letto prima di addormentarsi).
Il cinema con il capolavoro di Alexander Payne.

Il disegno del dialogo (parte I)
Anche questa sezione si divide sostanzialmente in due parti. La prima è praticamente un riassunto di Story (non barate, comprate l’originale) con tutti i suoi concetti chiave (l’incidente scatenante che muove il desiderio del protagonista versus motivazione versus forze antagoniste, e i beat che alternano i valori in gioco da positivo a negativo, e/o viceversa, portando avanti la storia per svolte narrative sempre più evidenti fino al climax finale).
La seconda parte analizza in sequenza tutti i possibili tipi di conflitto fra personaggio che McKee ci ha fatto il favore di catalogare e spiegarci passo passo.
Il conflitto bilanciato: ok, io amo I Soprano quanto la mia vita, ma questa sequenza, e la sua analisi, non è solo da manuale, è molto, molto di più: è la vita.
Il conflitto comico: la monomania ossessiva esplorata egregiamente negli arguti dialoghi di Frasier, serie tv da recuperare e sceneggiature da incorniciare.

Il conflitto asimmetrico: Un grappolo di sole, una pièce che ammetto di non conoscere e, a conti fatti, mi pento di non aver mai conosciuto. E c’è pure il film!
Il disegno del dialogo (parte II)
Il conflitto indiretto: che Fitzgerald fosse un fottutissimo genio non avevamo dubbi, ma McKee che sviscera le pagine de Il Grande Gatsby ci conduce dritti a un orgasmo multiplo.
Il conflitto riflessivo, ancora sul romanzo e sul flusso di coscienza: se pensavate che Dialoghi, a dispetto del sottotitolo, fosse davvero solo per sceneggiatori vi sbagliavate di grosso. Il monologo, la lotta dell’Io, non sono anch’esse forme di dialogo? McKee sostiene di sì e ne dà ben due prove che farebbero ricredere anche il più scettico.
Il conflitto minimale: Lost in Translation, che è un po’ come tradire il lettore, perché prima gli dici che si scrive in un determinato modo, e poi fai un esempio che lo contraddice in tutto e, nonostante ciò, risulta verosimile, avvincente, sì, eccezionale.

La chiusura è una summa veloce di quanto detto finora da McKee e un invito a fare meglio: diventare padrone del mestiere. In sintesi: spia chi hai intorno, scrivi dall’interno verso l’esterno, e per congedo una serie di domande inevitabilmente da porsi prima di cominciare a scrivere qualsiasi cosa abbiate in mente, anche il post di un blog.
Ancora non barate: leggete prima i testi citati, dopo le analisi di McKee (anche se sono alternati).
Conclusioni
Il merito dell’uscita italiana di Dialoghi è tutto della Scuola di scrittura Omero, la prima in Italia. Sottolineo che il merito di aver reso così avvincente, ancora, McKee, il guru dello storytelling, maestro di sceneggiatori Premio Oscar, è tutto del traduttore.
Si penserà: per rendere noioso McKee ci vuole proprio un cattivo traduttore. Sarà vero, ma ce ne vuole uno avvincente per tradirlo quando necessario e, sempre, esaltarlo al massimo.
Gli esempi riportati da McKee, sul testo italiano seguono le traduzioni già fatte dal doppiaggio o dalle prime edizioni di romanzi e testi teatrali. Adattamenti modificati solo laddove, riavvicinandosi alle parole italiane, si può rendere più chiaro il pensiero di McKee.
Quando è impossibile, le parentesi del traduttore ce lo comunica: mette avanti le mani, e riporta fedelmente le parole in inglese e le analisi, i conteggi, fatti da McKee su di esse.
Nel salutarvi, vi invito a leggere Dialoghi di Robert McKee, e a tornare su questa pagina per dirmi cosa ne pensate.
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Finito di leggere: giovedì 17 Gennaio 2018.