IL PENDOLO DI FOUCAULT di Umberto Eco
Qui fotografato nella recente edizione de La Nave di Teseo ma inizialmente edito da Bompiani, Il pendolo di Foucault (1988) è il secondo romanzo di Umberto Eco, a otto anni di distanza dal folgorante esordio in narrativa (per adulti) con Il nome della rosa (1980), vincitore del Premio Strega e bestseller delle classifiche mondiali, sempre edito da Bompiani con la quale l’autore intratteneva un rapporto pluridecennale sia per la saggistica sia per la narrativa per l’infanzia.

L’ALBERO SEFIROTICO
Il pendolo di Foucault è uno dei più sofisticati e insieme radicali libri dell’autore piemontese scomparso nel 2016. Per capire cosa intendiamo, basta guardare all’architettura interna del romanzo. Anzitutto, si presenta con una struttura “cabalistica”: il libro è diviso in dieci parti, ciascuna corrispondente ai dieci sefirot. In ordine progressivo: Keter (la Corona, l’origine, il vuoto primordiale), Hokmah (la fonte), Binah (il palazzo che Hokmah si costruisce espandendosi dal punto primordiale (…) è il fiume che scaturisce dalla fonte dividendosi poi nei suoi vari rami), Hesed, Geburah (quella del male e della paura, cui appartengono tutte le direzioni del Femminile), Tiferet (quella della bellezza e dell’armonia, che seduce con la sua bellezza: (…) è la speculazione illuminante, l’albero di vita, il piacere, l’apparenza porporina. E’ l’accordo della Regola con la Libertà), Nezah (la sefirah della Resistenza, della Sopportazione, della Pazienza Costante (…) ma per altri interpreti è la Vittoria), Hod (la sefirah dello splendore, della maestà e della Gloria; quella che governa la magia cerimoniale e rituale, il momento in cui si schiude l’eternità), Jesod (la sefirah del Fondamento, il segno dell’alleanza dell’arco superiore che si tende per inviare frecce alla misura di Malkut, che è il suo bersaglio. Jesod è la goccia che scaturisce dalla freccia per produrre l’albero e il frutto, è anima mundi), Malkut (il Regno di questa terra, dove si è esiliata la Saggezza). Ciascuna di esse rappresenta uno stato diverso dell’esistenza.
L’arco narrativo dell’Io narrante le attraversa tutte, una dopo l’altra, ma non come i Cavalieri dello Zodiaco che devono attraversare tutte e dodici le case, una dopo l’altra, per raggiungere le stanze di Arles per salvare Lady Isabel, quindi in ordine temporale lungo un’unica unità di spazio. No, Casaubon (questo il nome del protagonista) attraversa tutti e dieci i sefirot andando avanti e indietro con i ricordi attraverso il passato e il presente, proprio perché l’esistenza è fatta da diversi strati, e spesso quello che viene dopo non per forza rappresenta un’evoluzione emozionale e intellettuale del precedente, anzi sovente capita di dover tornare alle nostre origini per ritrovare uno stato meno degenerato dell’esistenza umana. Tale è l’ordine sefirotico.

In parallelo, il percorso delle sefirot compito per l’appunto da Eco, stando all’albero sefirotico di Cesare Evola riportato sul frontespizio, prima di tante altre illustrazioni inserite all’interno del volume, è il seguente: dal centro della parte superiore (Keter, 2 capitoli) scende a destra (Hokmah, 4 capitoli) e si muove indietro verso sinistra (Binah, 16 capitoli), scende a destra (Hesed, 11 capitoli) e va verso sinistra (Geburah, 30 capitoli), scende al centro (Tiferet, 43 capitoli) poi a destra (Nezah, 5 capitoli) quindi a sinistra (Hod, 6 capitoli), scende ancora verso il centro (Jesod, 2 capitoli) e tocca il centro perfetto della parte inferiore (Malkut,1 capitolo). Un percorso in salita (quello narrativo della storia) che corrisponde a una discesa verso gli abissi (dell’animo dei personaggi).
IL GIOCO DEL LIBRO
Una citazione colta (compresa una di Woody Allen), e spesso in lingua, la si trova in esergo a ciascuno dei centoventi capitoli: le citazioni sono chiaramente scelte in relazione all’argomento del capitolo stesso.

Se consultate l’indice all’inizio del libro trovate i titoli dei capitoli, ma non li trovate riportate nei capitoli stessi, che invece sono semplicemente numerati in ordine crescente; andando a fondo nel “gioco del libro” vi accorgete che quei titoli inesistenti sono composti da stralci delle citazioni in testa al relativo capitolo… pur se quasi mai corrispondono esattamente. Le citazioni trasformate in titoli a volte vengono tradotte (l’incipit del capitolo 1 è arabo) e a volte no (nel caso del latino, del portoghese, del francese), le maiuscole diventano minuscole (“Orologi” diventa “orologi”) ma non sempre, vengono ignorati i corsivi, gli omissis, i puntini di sospensione e le virgolette alte, le “v” diventano “u” per rendere più leggibili i manoscritti di antica trascrizione mentre le “a” possono diventare “ad” (capitolo 86), e ancora alcuni omissis possono trasformarsi in punti di sospensione (capitolo 109). Nella maggioranza dei casi titoli dei capitoli si riferiscono agli incipit delle relative citazioni, tranne poche eccezioni per le quali Eco preferisce le frasi centrali o conclusive per il titolo, o unisce frasi distanti omettendo parole (capitoli 32, 49, 57, 58, 64, 70, 75, 120).
A un evidente stratificazione stilistica di rimandi numerici e bibliofili, fa da contraltare una non meno complessa stratificazione narrativa…

LA STORIA
Sono tre i livelli narrativi, almeno quelli principali. Il primo è ambientato nel presente, a Milano, dove Casaubon (l’alter ego di Umberto Eco) cerca di risolvere il mistero della sparizione del suo amico Belbo. Il secondo è ambientato nel floppy disc lasciato da Belbo, inserito nel computer di Casaubon, che attraverso il word processor detto Abulafia fornisce una serie di idee, congetture, simboli, esperienze, tutte centrifugate insieme e che fanno da contraltare ai libri su libri sui quali Eco ha stratificato la sua infinita documentazione, e che uniti concorrono a determinare il misterioso Piano dei Templari.
Il terzo livello è ambientato nel passato, dagli anni ’70 agli anni ’80 (pretesto per raccontare la storia sociale italiana attraverso gli anni giovanili di Eco), quando da giovane studente (con una tesi sui Templari) Casaubon conobbe l’eccentrico Belbo al pub milanese di Pilade su Navigli, e tutti gli eventi che ne seguirono: l’ingresso nella casa editrice Garamond con il suo editore e truffaldino (in quel periodo cominciavano a fioccare le prime editorie a pagamento) dal quale deriva la minore casa editrice Manuzio; la conoscenza prima e il delitto poi dell’enigmatico colonnello sfigurato e mezzo matto che offre un manoscritto sui Templari in grado di svelarne il Piano; il viaggio in Brasile del narratore, ove conobbe Agliè, sedicente perpetuazione del Conte di San Germano, e molto altro…

LA GRANDE OPERA
Tre livelli narrativi principali, quindi, e molti altri minori che si aprono e chiudono fra singoli flashback dei personaggi e le relazioni che si instaurano variamente dall’incrociarsi di tutti questi macro e micro livelli. Non proprio un meccanismo da scatole cinesi, Il pendolo di Foucault è semmai una raffinata partita a scacchi giocata su un piano verticale. Dopo aver sviscerato quasi ogni teoria del complotto (dalla Pietra Filosofale ai Templari, dal Sacro Graal ai Rosa-Croce e via dicendo), tutte le dottrine esoteriche-alchemiche, ovviamente Eco va a parare dalle parti dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion.
A fare da filo conduttore fra i vari livelli di lettura di questa grande opera, è la titanica recherche della coppia Casaubon/Belbo insieme a un altro sgangherato redattore editoriale, Diotallevi, volta a ricostruire la Storia (segreta) mondiale. Mossi dall’ossessione per l’occulto e dal decostruttivismo accademico tipico del postmodernismo, il trio di intellettuali svela infine per analogie il senso metafisico (o il Piano, o la Grande Opera) della Storia scritta dagli illuministi (o dagli Illuminati?). Tutto riconduce al pendolo cui fa riferimento il titolo. Così chiamato in onore del fisico francese Léon Foucault, creato per dimostrare la rotazione terrestre grazie all’effetto della forza di Coriolis: è un pendolo sferico che fu appeso a un cavo di oltre 60 metri alla cupola del Panthéon di Parigi, lasciato libero di oscillare in tutte le direzioni, e così facendo tracciava delle linee sul piano della sabbia dimostrando che era la Terra a muoversi in quanto il piano di oscillazione non muta nel tempo.

Ma al paganesimo mitteleuropeo e alle cospirazioni ultrasecolari, Umberto Eco associa un irripetibile tratto ironico. Basti pensare alla interessante disamina fatta sulle potenzialità erotiche del flipper, comprensiva di un morboso sincretismo carnale alla David Cronenberg, unito al metodo di gioco orgasmico di Carlo Verdone in Troppo forte, uscito in sala due anni prima del romanzo di Eco.
Lo spirito alla base del romanzo maschera dunque una irriverente satira dei cospirazionisti, cosa che risponde molto alle esigenze contemporanee sempre volte a trovare il complotto dietro l’angolo. Ma se fosse ambientato oggi, l’attenzione verso le rivendicazioni femministe avrebbe senz’altro dato più spazio ai personaggi femminili, qui semplice compagne e comparse.

STILE
L’autore predilige il paradosso linguistico, i falsi sillogismi, la ridondanza letteraria al “non detto” dell’intreccio, alla suspence del mistero, all’intrigo dell’invisibile: solo le datate digressioni informatiche (tipiche degli anni ’80) hanno forse la meglio sula dialettica semiologica e sull’ironia enciclopedica dell’onnisciente Eco a proposito della Teoria del tutto che svela per noi insieme ai suoi eroi piccolo-borghesi. Il divertissement paradossale/parodico risulta in effetti la chiave di lettura del testo, la sua interpretazione definitiva: gli eroi credono di scorgere il Piano degli Sconosciuti, ma in realtà studiandolo lo creano appositamente per Loro, i quali si convincono sia autentico e perciò devono togliere di mezzo gli eroi che l’hanno scoperto!
Scelta stilistica comunque inconsueta per quello che, in fin dei conti, è un thriller. La sua scrittura di bocca buona rende il romanzo troppo complesso per un lettore medio di gialli d spiaggia. Non che sia un male, ma se si pensa che la storia è praticamente la stessa de Il Codice da Vinci (2004) e che il libro di Dan Brown può essere letto persino dei ciechi (cosa che lo ha reso un fenomeno mondiale), un po’ ci fa star male.

AUTOCITAZIONE FUTURA
Fa piacere trovare una citazione ante litteram de Il cimitero di Praga (2010), ben ventidue anni prima che venisse scritto. La storia del cimitero di Praga ruota attorno al piccolo funzionario postale prussianio Hermann Goedsche il quale, smascherato, diventa il redattore dell’organo dei grandi proprietari conservatori, ma sotto falso nome scrive romanzi a sensazioni, fra i quali il Biarritz (1868) dove descrive una occulta riunione degli Illuminati tenutasi nel cimitero di Praga: è qui che si riuniscono i rappresentanti delle dodici tribù di Israele che espongono i loro piani per la conquista del mondo.
In quest’occasione Eco cita come riferimento il Giuseppe Balsamo di Dumas, incentrato sulla sinistra figura di Cagliostro; lo stesso romanzo, se ben ricordate, ha appassionato le letture di Simone Simonini, l’agente segreto e falsario protagonista de Il cimitero di Praga. Nelle vicende lì trattate Simonini conosce Goedsche, e quest’ultimo gli ruba le scoperte per inserirle nel romanzo Biarritz. Credo che dopo essere stato battuto sullo stesso campo (si fa per dire) da Dan Brown, ventidue anni dopo Eco abbia deciso di riprendere la materia già trattata e sterzare maggiormente verso il genere, tanto che quello (l’ultimo romanzo per adulti di Eco) risulta essere un’operazione nettamente più popolare rispetto al Pendolo di Foucault.

CONCLUSIONI
Il pendolo di Foucault oggi è un classico, un tempo la stroncatura dell’Osservatore Romano (che lo accusava di “mistificazione barocca“) sapeva quasi di scomunica, destino non troppo diverso toccato oltre una decade dopo a Il Codice da Vinci.
La farraginosità dell’impianto narrativo fa brillare l’arguzia di determinate sequenze piuttosto che l’insieme, mentre l’andatura ampollosa potrebbe alla lunga annoiare, soprattutto per chi non riesce a familiarizzare con gli infiniti riferimenti eruditi. Ecco, con i suoi molteplici sottotesti polisemici, il romanzo è un vortice pirotecnico a metà fra giallo e avventura, saggio e reportage, storico e autobiografico, pensato per uno, nessuno e centomila lettori. Inizia come un pamphlet e termina come uno spettacolo al Grand Guignol (al Conservatoire di Parigi).
Ambizioso e controverso, impegnativo e ammiccante, come tutti i capolavori.
Finito di leggere: venerdì 23 ottobre 2020.
Nel salutarvi, vi invito a leggere Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, e a tornare su questa pagina per dirmi cosa ne pensate.