King of Halloween: DANSE MACABRE

King of Halloween: DANSE MACABRE

DANZA CON LA MORTE

La più celebre Danse Macabre è senz’altro il breve poema sinfonico del 1874 composto da Camille Saint-Saens e spesso usato nei film come nei cartoni animati. Il compositore si era ispirato al tema iconografico tardo-medievale conosciuto come Danza Macabra, nel quale è rappresentata una danza tra uomini e scheletri. Da questo, dall’omonima poesia di Charles Baudelaire e da molto altro prende spunto il “Re del Brivido” Stephen King nel suo manuale-non-manuale alla ricerca dell’essenza dell’horror.

Danse Macabre non un romanzo, quindi, avete letto bene: è un saggio. Antesignano di quel “vero” saggio sulla scrittura che sarà On Writing (leggi QUI la recensione). Un saggio sulla paura. Uno scheletro, non a caso, o meglio un teschio, campeggia sulla bellissima sovracopertina in bianco e nero della ristampa Frassinelli.

Danse Macabre_Libri Senza Gloria
Danse Macabre_Libri Senza Gloria

In quest’opera King, con il suo consueto stile semplice, colloquiale e a volte sboccato, passa in rassegna il meglio (e il peggio) della produzione libresca, filmica (e seriale) e radiofonica dedicata al mondo della paura, dimostrando una conoscenza quasi enciclopedica della materia per il trentennio 50′-80′ e sfoderando una lucida analisi della quale è priva la maggioranza dei recensori per riviste dedicate. Un’onniscienza cinematografica, quella esibita da King, che scommettiamo potrebbe competere con quella di Quentin Tarantino

INTRO

Come di rito per i libri di King, oltre alle dediche e ai ringraziamenti (per Bloch e Long tra i lovecraftiani, ma anche Jorge Luis Borges e Ray Bradbury), oltre agli epitaffi (uno di Eddie Cochran e l’altro di Peter Staub, collega di penna con il quale ha scritto Il talismano e La casa del buio), segue una sfilza di premesse: l’introduzione “Curiosity killed the cat” a cura del traduttore Giovanni Arduino che elogia il what if alla base di ogni testo kinghiano e si fa beffe dei critici e del fandom duro e puro; l’inevitabile Nota all’edizione italiana; quindi la Prefazione alla prima edizione sui motivi che spinsero King a scrivere la sua Ultima Parola sui meccanismi dell’orrore, e infine la Prefazione all’edizione tascabile nella quale riconosce il suo debito verso i complici di questa impresa.

Leggere un saggio di King non dà mai l’impressione di leggere un manuale di scrittura in biblioteca, quanto una piacevole rivista appena trovata nella sala d’attesa di un dentista. Anche in questo caso il Re non si approccia alla materia con la dovuta scientificità, anzi sembra negarne la possibilità, ma comunque con metodo.

On Writing_Libri Senza Gloria

4 OTTOBRE 1957. UN INVITO AL BALLO

King parte da uno spunto della sua adolescenza, quando ancora piccolo scoprì l’orrore: stava vedendo un film quando il gestore interruppe la proiezione per annunciare alla platea che i russi avevano appena mandato nello spazio il razzo Sputnik, così battendo sul tempo gli statunitensi in piena Guerra Fredda.

A ragion veduta, l’autore scrive che la narrativa della danse macabre funziona sempre su due livelli: in superficie c’è il fattore del disgusto (Regan che vomita in faccia al prete ne L’esorcista), ma a un altro livello l’orrore diventa una danza, una ricerca continua. Ed è a caccia del luogo dove il lettore o lo spettatore vivono al loro livello più primordiale. (…) Ed è in occasione del secondo livello dell’horror che si prova la cosiddetta “pelle d’oca”. Perché la vera danse macabre riesce a unire il conscio e il subconscio grazie a una sola, potente idea.

STORIE DELL’UNCINO

Attraverso la Storia dell’Uncino, una delle classiche che è possibile sentire intorno al fuoco dei boyscout, scopriamo che il genere esiste all’incirca su tre livelli distinti: se l’emozione più fine è il terrore (è l’emozione più sottile perché non ci è permesso di vedere ciò che sta dietro la porta, e in questo Lovecraft era un maestro), al quale segue l’orrore, il terzo piano è quello del disgusto. Bisogna rifuggire qualsiasi preferenza per l’uno o per l’altro o dallo stilare classifiche.

I lungometraggi e i romanzi dell’orrore sono sempre stati popolari, ma sembra che attraversino ogni dieci o vent’anni un ciclo di maggiore successo e diffusione: essi coincidono con momenti di serie difficoltà politiche ed economiche.

L’esorcista (1973) di William Friedkin

L’elemento allegorico esiste solo perché è implicito. L‘horror ci dà la possibilità di esercitare (è giusto: non “esorcizzare” ma “esercitare”) quelle emozioni che la società ci impone di tenere sotto controllo.

La normalità è una pura convenzione sociale. Come nel caso dei Freaks, a spaventarci non sono le aberrazioni fisiche o mentali in sé, ma il caos che queste sembrano implicare.

In narrazioni come I Was a Teenage Werewolf e La strage di Frankenstein coesistono allegoria e catarsi, ma solo perché l’autore di horror è soprattutto un garante della norma.

La strage di Frankenstein (1957) di Herbert L. Strock

STORIE DEL TAROCCO

Uno dei temi più comuni della letteratura fantastica è quello dell’immortalità. Con tre tarocchi l’autore indica i tre arcani orrori che si ripetono alternandosi in ogni storia. Sono tre dunque i romanzi caposaldo dell’horror che affrontano questo tema e al contempo fissano tre archetipi: Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde di Robert Louis Stevenson, Dracula di Bram Stoker, Frankenstein di Mary Shelley.

Questi tre lavori stanno alle fondamenta dell'”horror moderno”, avendo anche ingrandito la “polla dei miti” con le figure del Vampiro, del Licantropo e della Cosa Senza Nome. Il libro di Stevenson è in soldoni il vecchio conflitto tra Es e Super-Io al quale si aggiunge un altro dualismo: la scissione tra apollineo e dionisiaco; in tal senso Psycho si rivela molto suggestivo perché ricolloca il mito del Licantropo nel proprio luogo d’appartenenza. Al libro di Stoker è interna è una malvagità morbosa, in quanto l’autore resuscita la leggenda del vampiro con un romanzo che palpita di vigorosa energia sessuale: il dionisiaco che ci seduce. Nel libro della Shelley l’uomo è sconfitto dalla sua stessa arroganza nella convinzione di poter superare i propri limiti per poter raggiungere un livello divino.

Tutte le storie horror si dividono in due gruppi: quelle in cui l’orrore deriva dalla scelta libera e consapevole di essere malvagi, e quelle in cui l’orrore è frutto del destino e arriva dall’esterno come un fulmine a ciel sereno.

I Was a Teenage Werewolf (1957) di Gene Fowler Jr.

L’horror ci attrae perché ci consente di sperimentare per interposta persona quelle emozioni e quei sentimenti antisociali che la comunità, per il bene suo e nostro, ci impone di tenere a freno nella maggior parte delle circostanze.

UNA MOLESTA PARENTESI AUTOBIOGRAFICA

I bambini sono il pubblico ideale per l’horror. Questo è il paradosso: sono piuttosto deboli fisicamente, ma in grado di fare piazza pulita del baluardo dello scetticismo. (…) L’ironia della sorte è che i bambini riescono ad affrontare fantastico e orrore “così come sono” molto meglio degli adulti.

LA RADIO E LA PERCEZIONE DEL REALE

Ovviamente il re indiscusso della paura via radio rimane Orson Welles con La guerra dei mondi. Lo “stato dell’arte” ha a che fare con la “percezione del reale” o “aspettative visuali“, che sono saldamente legate alle platee del proprio tempo. In sintesi, cambia la percezione del reale e cambiano di continuo le linee di demarcazione della regione mentale dove la fantasia può scatenarsi libera.

Psyco (1960) di Alfred Hitchcock
Psyco (1960) di Alfred Hitchcock

Sono proprio la televisione e i film che spesso ottenebrano quella porzione del nostro cervello dove l’immaginazione si scatena al meglio; e lo fanno imponendo la dittatura del visuale (sul sonoro).

IL FILM HORROR AMERICANO MODERNO. TESTO E SOTTOTESTO – Parte I

Uno dei capitoli più lunghi in assoluto, ma perfetto per i cinefili di ogni età. Quasi in maniera filologica ci vengono riportati i migliori titoli della serie A fino a quella Z, da quelli che provocano angoscia a quelli che suscitano sane risate. Spesso gli horror puntano ancora più verso l’interno, in cerca di radicate inquietudini personali, quei punti di pressione fobica con i quali siamo costretti a convivere. Si aggiunge così un carattere di universalità da cui deriva un’arte più pura, e con il quale si spiega perché Zombi di Romero sbancò al botteghino. Questa categoria di horror è la serie B nei panni di fiaba: non è interessata a discorsi politici, ma tenta di spaventarci sfidando alcuni tabù; aiuta il pubblico a capire meglio quali siano i suoi timori, le sue fragilità e perché lo mettano a disagio.

Molti horror sanno sfruttare al massimo la paura di una brutta morte, altri film approfittano semplicemente della morte stessa e della decomposizione che ne segue.

La guerra dei mondi (2005) d Steven Spielberg

Le “aree di disagio” (socio-politico-culturali o di una varietà più mitica, fiabesca) hanno la naturale tendenza a sovrapporsi: un buon horror eserciterà pressione su tutti i punti possibili. Il bravo regista horror deve avere chiaro dove sia il confine ed è tenuto a dimostrare una comprensione istintiva del territorio al di là di tale linea di demarcazione, come Romero in La notte dei morti viventi.

Ci sono pellicole che nel loro sottotesto si rifanno ai nostri timori più concentri (sociali come la commedia nera de La fabbrica delle mogli, economici come il film a basso budget Amityville Horror, culturali, politici) e poi quelle che esprimono paure universali in grado di attraversare tutte le culture, cambiando soltanto di poco da un luogo a un altro. Ovviamente King tira in ballo anche la riduzione cinematografica del suo Carrie, ammettendo che l’adattamento di Brian De Palma è più sottile e raffinato del romanzo.

Zombie (1978) di George Romero

Abbastanza inconsueto è il film horror come incubo economico. I veri appassionati di horror pretendono sempre la struttura e la profondità caratteristiche del genere. Ma per godersi l’horror, bisogna saper apprezzare anche la spazzatura…

L’incubo di massa a stelle e strisce negli anni Sessanta e Settanta si esprime in film tecno-horror attraverso paure legate alla tecnologia che presentano la stessa dicotomia apollineo/dionisiaco di Jekyll/Hyde.

IL FILM HORROR AMERICANO MODERNO. TESTO E SOTTOTESTO – Parte II

Gli horror “fiabeschi” basati sul mito sono privi di sfumature: ci spingono ad accantonare la nostra tendenza per un’analisi matura e acculturata, a tornare bambini, a osservare il mondo in rigoroso bianco e nero. Paradossale o meno, l’horror fiabesco richiede una buona dose di realtà per funzionare.

La notte dei morti viventi (1968) di George Romero

Il buio, inutile sottolinearlo, sta alla base delle nostre paure più primordiali (…) perché le cose di cui si ride alla luce del sole rischiano di essere diverse sotto le stelle. La paura delle tenebre è la più naturale, immediata, perché i film, per loro natura, vengono visti al buio. Anche in quelle poche pellicole che raggiungono l’effetto dell'”horror alla luce del sole“, ci sono spesso momenti di paura nell’oscurità.

La morte! Ecco l’asso nella manica di ogni film dell’orrore, la carta che però non viene giocata come farebbero i veterani del bridge, con la perfetta comprensione delle implicazioni e i vantaggi del caso. E’ questo dettaglio che inficia le possibilità artistiche dell’horror e insieme ne rappresenta l’eterno, accattivante, morboso fascino. La morte diventa mito nei film dell’orrore, ma diciamo subito che questo si verifica sul più elementare dei piani: la morte negli horror è quando i mostri ti beccano.

I film sofisticati pretendono reazioni sofisticate dagli spettatori, cioè richiedono un approccio adulto. Gli horror non sono sofisticati, per questo ci permettono di riguadagnare la nostra prospettiva infantile sulle morte, il che non è certo un male.

La fabbrica delle mogli (1975) di Bryan Forbes

Ecco la verità definitiva sui film horror: non glorificano la morte, come ha sostenuto qualcuno, ma la vita. Non celebrano la deformità ma, mostrandola, inneggiano alla buona salute e alla forma fisica. Presentandoci le disgrazie dei dannati, ci aiutano a riscoprire le più minuscole (però mai insignificanti) gioie dell’esistenza; (…) non ci tolgono umori maligni ma ansia… almeno per un  po’. Il film dell’orrore ci intima di fissare l’aspetto fisico della fine. L’horror è il trionfo di chi può esaminare la morte perché questa non risiede ancora nel suo cuore.

IL FILM HORROR COME CIBO SPAZZATURA

Il vero pericolo dei lungometraggi delle major è la mediocrità. Subito dopo il porno, i registi squattrinati sono attratti dall’horror perché sembra un genere facilmente sfruttabile. E anche se sono state le “indies” a propinarci i fiaschi più epocali, è grazie a loro che abbiamo assistito ai migliori esempi del genere.

IL CAPEZZOLO DI VETRO (OVVERO, QUESTO MOSTRO VI E’ STATO OFFERTO DAL CIBO PER CANI GAINES-BURGERS)

La scrittura televisiva è pessima per due ragioni. Una parte di ciò è imputabile alle norme federali, l’altra è la conferma di un’antica massima: il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto. La tivù raggiunge quasi ogni casa d’America e i soldi in ballo sono una valanga. Proprio per questo la televisione si è fatta sempre più cauta con l’andar degli anni.

Amityville Horror (1979)

La base dell’horror, il principio cardine, si potrebbe dire, è questo: si deve spaventare il pubblico. La tivù ha costantemente preteso l’impossibile dai programmi dell’orrore, cioè di terrorizzare senza terrore, di angosciare senza farlo sul serio.

Il problema di base di ogni serie non antologica sul soprannaturale o l’occulto è: un completo fallimento nel tentativo della sospensione dell’incredulità. Difatti Kolchak: The Night Stalker si ammalò nel giro di poco della sindrome della Universal: dallo horror allo humour.

L’autore di fantascienza è sempre stato molto bravo a fare scivolare inavvertitamente, quasi per caso, i suoi lavori oltre la linea di demarcazione con un altro mondo… Il fondamentale contributo di Finney, ripreso poi dagli episodi più efficaci di Ai confini della realtà consiste nell’abilità alla Dalì di creare il fantastico allo stato puro… senza dovere giustificarlo o spiegarlo.

Carrie - Lo sguardo di Satana (1976) di Brian De Palma
Carrie – Lo sguardo di Satana (1976) di Brian De Palma

LA NARRATIVA HORROR – Parte I

A questo punto del piano, King vuole discutere di dieci libri cardine del settore, di quegli horror che funzionano come intrattenimento e parte integrante della letteratura del Ventesimo Secolo, ovvero di quella narrativa che compie il dovere primario della letteratura: dirci la verità su noi stessi raccontando bugie su persone mai esistite.

Giunge quindi il momento di introdurre a dovere il quarto archetipo: il Fantasma (la figura del revenant, lo spettro vendicativo di un passato non morto). Il Fantasma ci impaurisce per gli stessi motivi del Licantropo: è la nostra parte profonda che non si fa intrappolare dalle sciocche restrizioni apollinee. E’ il nostro lato dionisiaco… ma siamo comunque noi. Insomma, abbiamo bisogno delle storie di fantasmi perché, in realtà, i fantasmi siamo noi.

Sappiamo che gli spettri non sono cattivi per natura (…) ma ai fini dell’horror, i fantasmi devono essere cattivi.

Ai confini della realtà
Ai confini della realtà

A caratterizzare Ghost Story è la piena consapevolezza di che cosa sia il gotico e come si collochi all’interno della letteratura. Qui i fantasmi fanno proprie le motivazioni e addirittura le anime di chiunque li scorga. Se sono maligni, la loro cattiveria viene da noi. Anche se terrorizzati, i personaggi di Straub si accorgono di tale legame (…), sono freudiani. Solo alla fine, una volta esorcizzati, i fantasmi di Straub non conservano più nulla di umano, ormai emissari del “male esterno”.

LA NARRATIVA HORROR – Parte II

In genere è facile distinguere gli horror in base a questo sistema: ci sono quelli del “male interno” (Lo strano caso del dottor Jekyll e Mister Hyde) e quelli del “male esterno” o della predestinazione (Dracula). Ma di tanto in tanto spuntano libri per i quali è impossibile tracciare con esattezza una linea di demarcazione. Come ad esempio Hill House e Ghost Story. E’ l’incertezza sulla provenienza del male a separare un romanzo buono, o discreto, da uno ottimo, ma un conto è averlo chiaro in testa, un altro metterlo in pratica.

La casa stregata è forse un’altra delle sorgenti che alimentano la polla dei miti: King battezza questo archetipo il Brutto Posto (lui ne sa qualcosa, vedi Shining). Un romanzo su una casa stregata ha bisogno di un contesto storico, perciò King prende come esempio perfetto Hill House di Shirley Jackson.

La serie TV di Hill House

Un detto tramandato per anni dalla critica specializzata è stato: le storie dell’orrore funzionano al meglio quando sono brevi e vanno subito al sodo (…). E’ interessante evidenziare che questa regola fallisce nella pratica. La stragrande maggioranza dei film horror che sfrutta la struttura a cornice per accorpare tre o quattro episodi è di qualità discontinua o un fiasco totale.

Irving Malin ha redatto la “lista di ingredienti” per il gotico moderno: primo, ci vuole un microcosmo, un’arena dove si scontrano forze universali; secondo, la magione gotica è un simbolo di autoritarismo, prigionia o “narcisismo costrittivo”, ovvero un’ossessione progressiva per i problemi personali, un avvitarsi su se stessi invece di un protendersi verso l’esterno. Un tempo il Brutto Posto era considerato un chiaro simbolo sessuale (…), il nuovo gotico americano usa il Brutto Posto non al fine di esprimere attrazione o paura per il sesso, ma per il nostro ego (dove per simbolo si una uno specchio invece dell’utero). La carta più adatta ogni volta che si parla del narcisismo è quella del Licantropo: i classici film in tema ripropongono quasi sempre il mito di Narciso, consapevolmente o meno.

LA NARRATIVA HORROR – Parte III

La perfetta paranoia equivale alla perfetta consapevolezza: sotto questa curiosa ottica, la storia di Rosemary è un cammino in tale precisa direzione. In Rosemary’s Baby l’ansia per la protagonista scaturisce dall’impressione che sia l’unica normale in una città di maniaci pericolosi.

Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York (1968) di Roman Polanski

Ne Gli invasati di Jack Finney si vede come la psicosi della perfetta paranoia in quanto perfetta consapevolezza è l’ultima risorsa di una mente allo stremo.

Il popolo dell’autunno è forse l’opera migliore di Ray Bradbury secondo King. Altro esempio eccellente (pur non scevro di difetti) è Tre millimetri al giorno di Richard Matheson. Da queste opere si evince come l‘intera narrativa fantastica riguarda il concetto di potere; quella migliore racconta di persone che lo trovano a caro prezzo o lo perdono tragicamente; quella mediocre concerne chi lo possiede e non ne resta mai privo, limitandosi a esercitarlo. Come già ribadito, l’horror è una minuscola circonferenza all’interno del cerchio più grande del fantastico, e il fantastico è costituito da storie di magia. Che cosa sono le storie di magia se non storie di potere? Una parola quasi definisce l’altra. Il potere è magia; il potere è potenza. Il contrario di potenza è impotenza, che è mancanza di magia. Il tema cardine del fantasy non sta nel conservare la magia e nel servirsene (in tal caso, l’eroe della saga di Tolkien sarebbe Sauron e non Frodo), ma nel trovarla e nell’imparare come funziona.

Come sottolineato da Paul Theroux (un altro espatriato americano che vive a Londra), c’è qualcosa di tipicamente inglese nelle storie dell’orrore (forse soprattutto in quelle basate sull’archetipo del Fantasma).

Shining Jack Nicholson Stanley Kubrick Jack Torrance
Shining (1980) di Stanley Kubrick

A un certo punto King preme a sottolineare come egli abbia preferito non estrarre dal mazzo il tarocco del Mangiacadaveri, una delle creature più repellenti dell’universo del brividio; è infatti persuaso che nutrirsi della carne dei defunti e succhiare il sangue siano parte del medesimo archetipo. Esiste sul serio un “nuovo mostro“? La risposta di King è no, con buona pace di David Cronenberg e del suo Il demone sotto la pelle.

King ritiene che la narrativa popolare si divida da sola, senza nessun particolare artificio, in due metà: il cosiddetto “mainstream” e il presunto “pulp”; credendo che al momento la narrativa sia composta da tre grandi famiglie: letteratura, mainstream e pulp.

L’ULTIMO VALZER. HORROR E MORALE, HORROR E MAGIA

Da secoli i risvolti morali della narrativa dell’orrore vengono messi in discussione. La danse macabre è un valzer con la morte: l’horror ci offre l’opportunità di osservare le angosce che teniamo nascoste dietro porte abitualmente chiuse a doppia mandata. Ma la fantasia non si lascia bloccare da una serratura.

Il demone sotto la pelle (1975) di David Cronenberg

Nel corso di questo saggio King ha cercato di sottolineare come l’horror sia in realtà conservatore: il suo fine ultimo consiste nel ribadire i pregi della norma, mostrando a quali atrocità sia destinato chi si avventura nella terra del tabù. Nell’impalcatura del genere si cela un codice etico così rigido da far sorridere un puritano.

La narrativa è la verità dentro la bugia, e per l’horror, alla stregua di altri generi, vige ancora la regola di quando Aristofane scrisse la sua terrorizzante commedia sulle rane: la moralità è dire la verità come il tuo cuore la intende. Il compito dell’autore horror o del fantastico consiste nell’allargare temporaneamente i confini della fantasia, dotando il terzo occhio di una lente efficace e permettendovi di tornare bambini almeno per un po’.

CONGEDO

Alla Postfazione di King, che in parte giustifica l’aver riciclato (ma ampliato) alcuni pensieri già pubblicati per altre prefazioni ai suoi libri (come quella per A volte ritornano – leggi QUI la recensione), seguono le Appendici: una per i film e l’altra per i libri, entrambe dotate di oltre cento riferimenti (ma solo quelli con l’asterisco sono i preferiti di King). Chiudono alcune note. La prima è L’archivista di Antonio Faeti che riassume Danse Macabre come un coerente piccolo manuale di pedagogia della lettura e un catalogo guida alla creazione di una particolare biblioteca non certo adatta solo a chi ama l’horror.

Radiazioni BX: Distruzione uomo (1957) di Jack Arnold

Non può mancare la chiusa di Gianni Canova, Quando lo schermo si fa nero, nella quale il critico sottolinea che l’horror degli anni Ottanta (l’unico genere veramente sperimentale in uno dei decenni più conformisti e “normalizzanti” della storia del cinema), come mosso da una feroce volontà di sfigurazione, abbia svolto il ruolo di una vera e propria mina vagante: ha fatto saltare le distinzioni e gerarchie e ha terremotato i parametri con cui prima si era soliti definire e perimetrare il mondo (…) Quanto più il cinema ha reso la paura visibile, tanto più ha negoziato la sua controllabilità, ha scritto King, questo almeno nel periodo che va dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, poi le cose sono cambiate: da divorante, la paura è diventata tonificante, una sorta di fitness dello spirito o un viagra della percezione in una società anestetizzata da un surplus di sicurezze e di protezioni garantite. Come una vitamina emotiva, anche la paura è diventata una merce preziosa nella società dell’eccitazione obbligatoria e del brivido controllato.

Sigmund Freud classificava in questo modo le paure che incombevano sulla nostra esistenza: “siamo minacciati dalla sofferenza da tre versanti: dal nostro corpo, dal mondo esterno e dalle nostre relazioni con gli altri.” Ognuno corrisponde per Canova a un diverso filone: l’horror corporale, l’horror catastrofico-naturale e l’horror social-relazionale. Purtroppo Danse Macabre si arresta sulla soglia di quei mutamenti radicali che negli ultimi vent’anni hanno cambiato anche la nostra percezione della paura, facendo emergere l’inadeguatezza e l’incertezza come le nuove forme epocali del terrore individuale e collettivo nella società del comfort globalizzato. E’ la paura di non essere all’altezza che segna in modo specifico lo scenario emotivo della contemporaneità.

NOTE

P.S.1 Sorprende (ma neanche tanto) constatare le lodi in cui si profonde King nei confronti delle opere orrorifiche e satiriche insieme di Stanley Kubrick, da Il dottor Stranamore ad Arancia Meccanica fino a 2001: Odissea nello spazio, senza dimenticare il tanto odiato Shining.

Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick

P.S.2 King adora Duel, l’adattamento televisivo del romanzo di Matheson (lo stesso di Io sono leggenda e Tre millimetri al giorno) firmato dall’allora giovane Steven Spielberg, ma aborrisce altri film su strada come ad esempio Interceptor. Beh, come sappiamo Interceptor è un cult ma anche un capolavoro, mentre il debutto alla regia di King con il mediocre film Brivido (tratto dal suo racconto Camion) viene ricordato come fatto malaccio, anzi non viene ricordato affatto.

CONCLUSIONI

Danse Macabre è un excursus di oltre quattrocento pagine (nel caso di King non suona mai come una contraddizione) che ci almanacca le riflessioni sul tema del soprannaturale del più grande autore horror contemporaneo, quasi a fare da sequel ideale alle riflessioni sulla letteratura soprannaturale già redatte a suo tempo dall’altro maestro di un’epoca precedente, H.P. Lovecraft.

Chi si aspettava un manuale per scrivere libri di paura o dirigere film dell’orrore, rimarrà deluso. Non è il classico saggio divulgativo di critica letteraria, ma è un empirico studio del pop, facente parte egli stesso del pop che tenta di descrivere. Chi però conosce l’atipico e prolisso modo di incedere di King, dove l’accademismo è umoristicamente viziato dall’autobiografico in maniera apparentemente inconcludente, ne rimarrà pienamente soddisfatto. Soprattutto gli amanti del genere horror, ma anche del fantascientifico (e un tantino del fantasy) troveranno continue (ri)scoperte, un’apologia del genere e una dichiarazione d’amore verso i risultati migliori.

The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick ed Eduardo Sànchez

Unica pecca, semmai, è che le argomentazioni di King terminano con le opere degli anni ’80 (il libro è stato scritto nel 1981 e ripubblicato nel 1983 per l’esattezza), ovviamente perdendosi tutto il meglio dell’horror a seguire: dalla rivoluzione visiva di The Blair Witch Project, al metodo produttivo della Blumhouse fino al Premio Oscar per quel capolavoro di Scappa – Get Out.

Ammetto che spesso la mancanza di organicità con la quale King tratteggia l’argomento spesso può confondere, se non in rari casi annoiare, soprattutto quando si dilunga nella disamina di opere che da noi non sono mai arrivate o di prodotti televisivi morti e sepolti (lasciando stare Ai confini della realtà, parliamo sicuramente di Thriller) e distanti anni luce dallo storytelling attuale. Rimane l’amaro in bocca di non leggere i commenti di King sui prodotti più recenti, questo sì, ma mai si ha l’impressione di avere per le mani un saggio datato: non è una semplice lezione di storia, ma un viaggio unico e appassionato verso la materia oscura che si annida nel cuore di ogni lettore, spettatore e ascoltatore.

Finito di leggere: domenica 27 settembre 2020

Nel salutarvi, vi invito a leggere Danse macabre di Stephen King, e a tornare su questa pagina per dirmi cosa ne pensate.

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